TAGLIATELLE E CAPPELLETTI
di Maurizio Lanzoni
Prefazione: Comincia la storia
Il Maestro Venerabile ci richiama all’ordine.
Maestro Venerabile. Tutto, in questo Tempio, deve essere serietà, senno, benefizio e giubilo.
Dal nostro Rituale del Primo Grado
Aveva detto alla nostra accoglienza:
Maestro Venerabile. Poiché ora vi è stato restituito il bene della Luce fisica, consentitemi di richiamare la vostra attenzione su ciò che noi consideriamo le tre grandi, anche se simboliche, Luci nella Libera Muratorìa. Esse sono: il Volume della Legge Sacra, la Squadra e il Compasso. Le Sacre Scritture per reggere la nostra fede, la Squadra per regolare le nostre azioni, e il Compasso per tenerci nei giusti limiti di condotta verso tutta l’Umanità, in particolare verso i nostri Fratelli nella Libera Muratorìa.
Rituale Emulation
Un maestro saggio indica la via.
Prima di praticare per trent’anni lo Zen vedevo le montagne come montagne e le acque come acque.
Quando giunsi a una sapienza più profonda, vidi che le montagne non sono montagne e le acque non sono acque.
Ora che ho raggiunto l’essenza della sapienza, sono in pace, perché vedo le montagne come montagne e le acque come acque.
Ch’ing-yuan (VIII sec.)
In poche righe (mi riferisco alla terza citazione) è racchiusa una grandissima verità. Forse qualcuno può essere disturbato da un linguaggio così astratto, quasi etereo, evanescente. Rendiamolo allora più “concreto”, magari nell’ostico vernacolo nostro.
Préma ad fêr e’ Zen, al tajadèli l’i m’ paréva tajadèli e i caplét i m’ pareva caplét.
Da quând che a faz e’ Zen, a vegh che al tajadèli l’i n’ é piò tajadèli e i caplét i n’é piò caplét.
Ma da quând che a sò illuminé al tajadèli agl’ é turnêdi tajadèli e i caplét j è turné caplét.
La nostra storia comincia in un grande bosco naturale: ettari ed ettari conservati per così dire come erano una volta.
Non importa dove ci troviamo, il luogo esatto, la località geografica… Come non importa sapere quando, se oggi, ieri oppure in un lontano passato o magari nel futuro. Accontentiamoci di sapere che in qualche piega dello spazio e del tempo siamo ad un bivio. E non preoccupiamoci troppo se notiamo possibili incongruenze storico-geografiche: si sa, se realtà e fantasia si fan guerra, è la fantasia che sconfigge la realtà.
Siamo ad un bivio. Ma questo è un bivio strano, non come tutti gli altri. In genere i bivi normali, onesti, sono quelli nei quali la strada che percorri si biforca e devi scegliere se andar di qua o di là. Questo invece è per così dire un bivio alla rovescia, dove le strade già “biforcate” si riuniscono in una, un po’ come quei due fiumi, il Montone e il Ronco, che a Ravenna, pochi chilometri prima della foce, si uniscono, cambiano nome e vanno al mare insieme.
Al nostro bivio sono fermi tre personaggi. Per quanto ne sappiamo non si sono mai incontrati prima, ognuno proviene da una strada diversa e per qualche strano caso si trovano nello stesso momento là dove le tre strade si riuniscono e continuano in un’unica via. Infatti più che bivio si tratta di un trivio, termine poco usato ma correttissimo e di lunga storia, con illustri origini latine (trivio da trivium, cioè tre vie) e ancora più illustri precedenti medievali, con il qual termine indicandosi le arti appunto del Trivio (Grammatica, cioè il latino, Retorica, cioè l’arte di comporre frasi e discorsi, Dialettica, cioè la filosofia). Per rimaner nel colto i tre stanno a trebbio (trebbio, stesse origini di trivio) termine letterario che troviamo per esempio in Francesco d’Assisi e in Pascoli.
Attori
Dunque i nostri amici (chiamiamoli così) stanno a trebbio sul trivio. Si sono cioè incontrati e si son fermati a parlar tra di loro, un po’ incuriositi della strana confluenza delle strade, ma cogliendo l’occasione per sostare, riposarsi e conoscersi.
Ascoltiamoli e cerchiamo di capirci qualcosa.
Alceo è uno studente. E’ ancor giovane ma appare solido, come del resto solido è il suo nome, che proviene da alké = forza. Ha un forte desiderio di imparare e conoscere. Ha letto molto ma ha già compreso che leggere non è sapere e non è cultura: è solo il primo passo per il sapere. Il suo maestro gli ha ripetuto innumerevoli volte che ci sono individui che leggono, leggono e leggono, ma ignoranti erano e ignoranti rimangono. Ah, sì. Presuntuosi anche: sono dei gran presuntuosi – hanno letto tanto tanto – e si permettono di pontificare su ciò che non sanno e, peggio, non capiscono.
Alceo sta dedicandosi, con la serietà che lo contraddistingue, ad approfondire il rapporto tra il viver bene e il cibo. Sta viaggiando per conoscere nuovi cibi, per sapere come sono cucinati e con quali ingredienti.
Ha scoperto che la salute nasce da una dieta varia, completa ed equilibrata. E ha scoperto con entusiasmo anche piatti nuovi, saporiti, che placano appetito e calmano insoddisfazioni, ed è impaziente di comunicare le sue scoperte a chi incontra. Quale migliore occasione di quella? Sente anche che quei due, incontrati proprio là dove tre strade si riuniscono in una, in qualche modo sono legati a lui. Non sa come e perché, ma sente che il legame esiste.
Callisto è un adulto vigoroso e dall’aria franca e cordiale. Da tempo non è più uno studente, anche se – si ripete con convinzione – non è mai passata l’età per imparare, e sorride di quei tipi presuntuosi che leggono, magari male, un breve scritto e si sentono esperti di qualunque cosa. Tuttologi, li chiama con un sorrisino di compatimento. Lui invece si sente uno che cerca. Ha imparato che ci sono molte cose belle nella vita e ce ne sono di brutte; è convinto che probabilmente lo scopo della vita non si esaurisce nei ristretti confini del mondo fisico. Sì, apprezza il cibo, ma solo nella misura in cui assumere cibo è condizione per vivere. Gli piacciono i buoni cibi, ma senza esagerare: a volte preferisce un cibo povero ben preparato a uno succulento ma gettato nel piatto come il muratore getta la calcina sulla pietra. Gli piace osservare le cose, anche i minimi particolari, coglierne le sfumature e la bellezza intrinseca. Il suo nome stesso, Callisto, è legato alla bellezza e gli pare ben azzeccato. Gli succede a volte che di fronte a certi spettacoli (il profilo particolare di un monte, un albero strano, un semplice sasso) si fermi a osservare, come in contemplazione. No, non in contemplazione, bensì in ricerca quasi interiore. Perché quel sasso l’ha colpito? – si domanda. Probabilmente per la forma particolare che rievoca. Cioè? Fatica anche lui a individuare i suggerimenti e le suggestioni che quel particolare oggetto gli ha suscitato: certo sono cose che vengono da lontano, ben oltre la spiaggia e la battigia del suo mare interiore, ma proprio dall’acqua, dalle profondità di quello spazio liquido dentro di sé che a volte lo impaurisce per i mostri che potrebbero stare là.
Mentore è il più anziano. Un tempo si sarebbe detto che le parti finali della vita umana indicassero uno stato di saggezza, ma lui non ne è tanto sicuro. Ohibò, tutti i vecchi sarebbero saggi? Impossibile, ribatte la sua esperienza. Quanti malvissuti ha incontrato in vita sua! E, giunti alla vecchiaia, se la prendevano sempre più contro il mondo per non aver ottenuto nella vita quello che volevano! No, la saggezza non è cosa legata all’età: c’è il giovane già saggio e il vecchio che saggio non sarà mai.
La saggezza è un delicato equilibrio, che costruisci giorno per giorno nel tuo rapporto con le cose. Non solo con i grandi problemi esistenziali dell’uomo (chi sono?… dove andrò?…) e con gli altrettanto grandi problemi dell’uomo verso l’uomo. No, anche nei piccoli rapporti quotidiani con chi ti è vicino. Non devi prevaricare sugli altri. Certo. Ma è anche fin troppo facile non prevaricare sugli estranei, persone con le quali non hai in pratica nessun rapporto e verso le quali mostri una indifferenza totalmente indifferente. Non devi prevaricare nemmeno (e qui sta il difficile) con chi ti è vicino, con chi ti sta vicino. Con questi è difficile, ma sono questi il tuo “prossimo”.
La Ricetta
Alceo ha appena conosciuto una ricetta nuova. Si trovava ospite in una casa e gli avevano offerto un piatto di tagliatelle al ragù. Non ne aveva mai sentito parlare. L’aveva assaggiato e ne era rimasto entusiasta, tanto da volerne riprodurre la bontà.
Lì, fermi al trivio, seduti su morbida erba profumata, Alceo cerca di descrivere agli altri le sensazioni provate assaggiando quel piatto: morbide eppur sode striscioline di pasta unite tra loro da un condimento particolare, creato con mescolanza e amalgama di vari sapori di carne e dell’orto, sobbollendo per lungo tempo.
Ecco la lista, che Alceo ha debitamente redatto nella dotta lingua dei dotti. Bubŭla (cioè carne di bovino) et spectĭle (la nostra pancetta) nella rigorosa proporzione 1 a 0,5. E ancora: carōta, apĭum (il sedano) e cepa (la cipolla); solanum lycopersicum (il pomodoro) passato, lac (il latte) et vinum album (vino bianco). Infine paucum ius (che non è il diritto ma semplicemente il brodo), oleum aut butyrum (olio o burro). E ancora sal et piper quamlĭbet. Da ultimo in coqui libero arbitrio flos lactis (cioè: facoltativamente panna).
*
Callisto ascolta attentamente Alceo. Coglie subito la capacita dell’interlocutore di costruire un discorso corretto. Certamente Alceo si è impadronito della tecnica di parlare. Esprime chiaramente ciò che vuol dire e questo dimostra la serietà del suo studio.
Già, la serietà… Non significa evitare il ridere, ma impegno nel lavoro, comprensione della sua importanza; serietà significa essere in grado di assolvere i propri doveri. Ma serietà è anche conoscere i propri limiti e non pretendere l’impossibile.
Tuttavia Callisto riconosce che il lavoro di Alceo è ancora troppo rigido, accademico quasi, di quel “sapore di accademia” che codifica il sapere e così lo trasmette senza rendersi conto che il codificar troppo è quasi sinonimo di sterilizzare, e trasmettere così una pappina uniforme, tutta uguale, senza le sfumature di sapori di un buona e varia bistecca, magari un po’ duretta ma gustosa, o di un frutto saporito e succoso anche se un po’ beccato da uccelli golosi.
E’ interessante la sua ricetta del ragù, ma troppo scolastica. Bello l’uso del latino, ma forse non appropriato per l’argomento. Sembra quasi di aver ascoltato una ricetta di Apicio, l’antico cuoco della Roma imperiale, però congelata quasi dalla lontananza temporale e oggi impossibile replicare. Invece per trattare un certo argomento bisogna prima impadronirsene con il fisico e con l’animo, amarlo, immedesimarcisi, altrimenti si resta all’esterno e si è come l’astemio che vuol parlare di vini o il vegetariano che insegna a gustare l’asino stracotto al vino rosso.
A Callisto pare che un piatto debba essere strettamente legato al posto, al territorio, come dicono alcuni snob. Per poterne comprendere lo spirito bisogna penetrare la vivanda, comprendere come e perché vengono usati quegli ingredienti, oppure perché ne vengono usati altri (per necessità o per gusto o per comodità o per tradizione). Insomma: avere, per l’oggetto delle nostre riflessioni, sentimento, pensiero, inclinazione, prudenza. Gli risuonano ancora nelle orecchie gli ammonimenti del suo vecchio maestro: Devi essere avveduto e prudente, esaminare con equilibrio l’intima ragione delle cose.
Insomma – si diceva – bisogna aver senno, saper discernere e giudicare.
Ma non un giudizio che faccia sorgere nel giudicato il senso dell’errore e la preoccupazione di avere sbagliato, quanto il suggerimento dell’esistenza di altre sfumature non colte: insomma l’altra faccia della medaglia.
Avanza alcune osservazioni.
Per prima cosa non ci può essere rigidità nella scelta degli ingredienti.
Si vuole il ragù classico? Allora ci vuole una precisa proporzione tra bovino e suino e un sufficiente tempo di cottura.
Si vuole un ragù veloce? Con gli stessi ingredienti nelle stesse proporzioni si può cuocere il tutto per un tempo inferiore ottenendo un piatto ancora gustoso, pur non all’altezza del precedente.
Ci sono avanzi? Variamo pure ingredienti e proporzioni. Si otterrà non certo il ragù, ma sicuramente un sugo altrettanto valido per condire.
Caro Amico – conclude Callisto rivolto ad Alceo – non esiste una ricetta generale e teorica: questa è solo metafisica. Tutte le ricette debbono essere calate nella realtà fisica e la ricetta metafisica assume veste materiale. Ecco che la metafisica diventa solo un’aspirazione dell’uomo, un puro ideale, una pura forma,… una meta, e non un qualcosa di concreto. Sono gli ingredienti e la mano del cuoco a “fare” un piatto applicando quella ricetta.
Il cibo di un popolo dipende dal modo di vivere del popolo, dalle risorse disponibili e anche dagli usi e dalle costumanze.
Così l’uso di condire con grasso animale (nel ragù il grasso di maiale) può semplicemente derivare dall’abbondanza di tale ingrediente in quel territorio. Altrove, dove il clima è più mite, si utilizzerà olio e in altri paesi, dediti all’allevamento di animali, burro oppure, se dediti alla pesca, olio di pesce.
Così non può essere categorico l’uso della pancetta. In territori limitrofi si preferisce l’olio di oliva dal sapore più delicato. E per sottolinearne la delicatezza non è appunto opportuno ridurre la quantità del maiale?
Callisto descrive la “sua” ricetta del ragù, quella che preferisce per condire le tagliatelle.
Una parte di carne macinata bovina e mezza di suino (e non pancetta) e poi sedano, cipolla e carota. Infine abbondante pomodoro passato, olio e sale quanto basta. E’ più semplice dell’altra, ma “meno pasticciata” e alla lunga più delicata.
*
Mentore ha ascoltato attentamente i due. Apprezza di Alceo la capacità di giungere direttamente al cuore del problema, e riconosce in Callisto la maturità nel pensare e il saper “danzarci” intorno, come il sarto che vuole abbellire un abito, e così facendo può cogliere sfumature particolari.
Mentore ha confrontato in silenzio le due ricette dello stesso piatto, anzi, per così dire, di due piatti simili ma diversi pur chiamati con lo stesso nome. Eh, sì. E’ proprio vero che siamo nel mondo del relativo!…
Sì, è vero. Non esiste il ragù absolutum. Esistono tanti ragù, tanti quanto sono i luoghi, tanti quanto sono gli ingredienti e tanti quanti sono i cuochi. Il ragù absolutum è l’idea di ragù, archetipo quasi platonico che informa ogni ragù cucinato.
Ogni ragù particolare ha una sua Bellezza che adorna la Forza nascosta del composto, come il capitello adorna la cima della colonna. I tanti ragù sono come le colonne che sostengono il Tempio. Tante Colonne materiali che sostengono il Tempio materiale, ma al contempo nell’altrove ci sono tante Colonne non materiali che sostengono il Tempio non materiale.
Il saggio è colui che sa che la Forza è forte e la Bellezza è bella, e conosce sia la Forza della Bellezza sia la Bellezza della Forza. Ma saggio è colui che sa anche che la Forza non deve essere troppo forte altrimenti si trasforma in brutalità distruttiva e la Bellezza non deve essere troppo bella altrimenti diventa leziosaggine ridicola e fine a se stessa.
Gli viene in mente un certo piatto di tagliatelle al ragù che gli offrirono una volta. Si informò sulla ricetta e rimase stupito dello squilibrio degli ingredienti.
A condire le tagliatelle c’erano: maiale e bovino nella stessa quantità; poi un terzo di pancetta di maiale oppure a volte la metà di fegatini di pollo; facoltativamente un terzo di prosciutto crudo oppure la metà di salsiccia. Quindi carota, sedano e cipolla; poi un bicchiere di vino indifferentemente bianco o rosso e abbondante passata di pomodoro. Infine brodo, olio e burro e, facoltativamente, latte.
Ringraziò per il piatto, ma – dentro di sé – non approvò quella ricetta. Troppo squilibrata; troppa, troppa forza e poca poca bellezza. Insomma, in quel piatto non c’era equilibrio, non c’era benefizio, nel senso diretto del termine: benefizio da bene facere, cioè far bene. Far bene agli altri, ma anche far bene il proprio lavoro.
Come non mettere in relazione il benefizio con quanto già incontrato: la serietà e il senno?
L’uomo serio, che conosce la “gravità” delle proprie azioni, che possiede la facoltà di discernimento, si comporta con “benefizio”, cioè si comporta bene, verso il mondo ma anche verso se stesso. E’ il benefizio a mettere in relazione il proprio mondo con i mondi degli altri.
Serietà e senno sono sotto l’egida del razionale, il benefizio amalgama le qualità, come il fuoco basso trasforma un miscuglio di carni, ortaggi e pomodoro in un intingolo straordinario e succulento. Benefizio è il pentagono inscritto nel cerchio, benefizio è la sezione aurea, benefizio è la “mandorla” geometrica che compare all’interno di Squadra e Compasso. Benefizio sono i Fratelli che lavorano insieme, ciascuno con le proprie scabrosità e individualità, ma tutti con lo spirito costruttivo che vuole servirsi delle scabrosità di tutti come collante per tenere insieme tutte le pietre nel muro.
Commiato
Il 2° Sorvegliante chiama: la ricreazione è terminata.
I tre si sono incontrati, si sono conosciuti, si sono parlati, si sono appunto ri-creati. Ora è tempo di proseguire il cammino. E ben venga se almeno per un po’ cammineranno assieme.
Lasciano il trebbio… E qui interviene il poeta:
Rinnovato hanno verga d’avellano.
E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
Vanno cantando antichi canti, che li rendono più leggeri.
Serietà, senno e benefizio hanno dato origine, sobbollendo nel ragù primordiale dell’humus dell’homo vagans, al giubilo, jùbilum = il gridare per gioia. Gioia ineffabile che non si può esprimere a parole, ma di tale intensità che non permette di tacere.
Alceo, Callisto e Mentore vanno, cantando, esprimendo così la propria letizia. A un certo punto chi li guarda da lontano li vede quasi confondersi e diventare uno solo.
Alceo, Callisto e Mentore… Apprendista, Compagno e Maestro… sono diventati il Libero Muratore.
Postfazione
E i cappelletti indicati nel titolo?
Potrei sulfureamente suggerire che spetta al lettore comprenderne il ruolo in un inno alla tagliatella al ragù.
Oppure enigmaticamente accennare alla fecondità del contrasto tra tagliatelle al ragù e cappelletti in brodo.
Ma sinceramente la risposta è molto più terra terra.
Il saggio Ch’ing-yuan citato all’inizio si riferisce a monti e acque. Due elementi correlati. Non mi piaceva la correlazione tagliatelle e acque. Non è più spontaneo correlare tagliatelle e cappelletti col brodo che ricorda le acque? Si rimane nello stesso ambito culinario, geografico e temporale. Ecco: l’aver messo insieme tagliatelle e cappelletti ha appunto il significato di non aver nessun significato. O no?
Seconda Postfazione
Liberamente ispirato da Lo Zen della tagliatella romagnola di Marco Galizzi (Soc. Editrice “Il Ponte Vecchio”, 2011, Cesena). In particolare la traduzione in vernacolo romagnolo dell’aforisma Zen è nel capitolo: La visione cosmica della tagliatella. Vi ho apportato l’unica modifica dei cappelletti invece delle acque. Di Marco (a p. 34) è anche la ricetta del ragù per le tagliatelle romagnole che ho messo in bocca a Callisto.
Viene citata da Alceo, sia pure in latino, la ricetta cosiddetta “attualizzata” del Ragù alla Bolognese, depositata dall’Accademia Italiana della Cucina presso la Camera di Commercio di Bologna. Ricetta che mi intriga poco per la presenza invasiva di maiale, vino e latte, per non parlar della panna liquida.
Non parlo invece dell’altra grande categoria di ragù, quelli fatti con un unico pezzo di carne non macinata che sarà il secondo piatto dopo la pastasciutta. Sono tipici del meridione d’Italia. Un magistrale esempio in Sabato, domenica e lunedì di Eduardo De Filippo. E anche loro nascondono un profondo simbolismo.